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Ritorno a Villa Diodati

by Simona

La notte del 16 giugno 1816 e il Mito della nascita della letteratura di genere rivivono in un saggio

Fantascienza, horror e gotico moderno: generi letterari, prima ancora che cinematografici, che prendono vita con tre opere concepite in un’unica, leggendaria notte: “Frankenstein” di Mary Shelley, “Il vampiro” di John Polidori e il frammento “La sepoltura” di Lord Byron. A ricostruire il suggestivo mosaico di quelle ore è il libro “La notte di Villa Diodati”, edito da Nova Delphi, che recentemente ha raccolto per la prima volta in un unico volume quelle tre storie e un lungo e appassionante saggio dello scrittore alessandrino e critico cinematografico Danilo Arona.

La notte fra il 16 e il 17 giugno 1816 Villa Diodati, un’incantevole ville a louer sul lago di Ginevra, fu teatro di una “scommessa” tra scrittori e intellettuali che segnò la storia della letteratura di genere: nella dimora costruita un secolo prima e che aveva ispirato in precedenza anche l’autore di “Paradiso Perduto” John Milton, si ritrovarono il poeta inglese Percy Shelley e la futura moglie Mary, il poeta Lord George Gordon Byron, il medico di Byron e scrittore John William Polidori, e infine l’aspirante attrice Claire Clairmont, sorellastra di Mary Shelley e recente amante, già abbandonata e a quel tempo incinta, di Lord Byron. Un’oscurità impressionante e una pioggia torrenziale, che da mesi accompagnava l’Europa a causa di sconvolgimenti climatici in atto fin dall’altra parte del mondo per l’eruzione del vulcano Tambora nell’isola di Sumbawa in Indonesia, portavano un’atmosfera da Apocalisse in una serata di cui Byron si era fatto gran istrione, mettendosi a leggere dopo cena alcune novelle gotiche tratte da “Phantasmagoriana”, raccolta in cui alcuni viaggiatori si raccontavano a vicenda esperienze incredibili e sovrannaturali.

Lord Byron, ispirato dall’atmosfera cupa dentro e fuori la casa, lanciò al gruppo una “leggendaria sfida attorno ai torrioni della paura”, come la definisce Arona: scrivere la più spaventosa storia mai concepita dall’uomo. La proposta fu accettata, anche se solo tre dei presenti l’avrebbero portata avanti, con risultati diversi (il poeta Shelley se ne tirò fuori pressoché subito, e Claire non possedeva il talento per partecipare). Il giorno seguente Lord Byron buttò su carta il proprio racconto (che sarebbe poi rimasto un vero e proprio abbozzo), mentre Polidori il 18 giugno avrebbe iniziato la stesura non de “Il vampiro”, bensì di una storia su un personaggio con un teschio al posto della testa. (“Il vampiro”, che il medico avrebbe ispirato al racconto di Lord Byron, sarebbe stato scritto nelle settimane seguenti in assenza del poeta, in viaggio).

Diverso, e per certi versi molto più articolato, fu il percorso compiuto da Mary Shelley per “Frankenstein”, ispirato come lei stessa scrisse nella prefazione del 1831 da un sogno fatto tra il 21 e il 22 giugno: il romanzo avrebbe giovato di alcune conversazioni tra Byron e Shelley sul principio della vita e sui poteri naturali in grado di ridare la vitalità a un corpo inerte, nonché sulla rianimazione tramite l’elettricità, ma inconsapevolmente traeva le basi anche dal complesso rapporto tra la scrittrice e l’esperienza della maternità e del corpo, e il legame visionario e complementare con Claire, terzo polo di un mai confermato ma ossessionante rapporto a tre insieme a Percy. Figlia della filosofa Mary Wollstonecraft e del politico e scrittore William Godwin, Mary Shelley perse la madre dieci giorni dopo il parto, per complicazioni non rare a quell’epoca, e crebbe con la sorellastra Fannie, figlia di una precedente relazione della madre, insieme alla nuova moglie del padre, una vicina di casa, e alla figlia di lei, Claire: una situazione familiare complicata a 16 anni dall’incontro con Percy, discepolo del padre e all’epoca sposato con Harriet (in seguito suicida), da cui a 18 anni avrebbe avuto una prima figlia morta a pochi giorni dal parto. A questa prima bambina sarebbero seguiti un aborto spontaneo, Clara Everina e William, morti entrambi in giovane età, e l’unico figlio che sarebbe sopravvissuto ai genitori, Percy Florence.

La vicenda di Mary, del marito e della sorellastra si incrociò a Ginevra durante la “haunted summer” con la “dannazione byroniana”, e l’irriverente amicizia e antitesi tra il famoso poeta Byron, zoppo per colpa di un piede equino che contribuiva alla sua fama luciferina, e il suo medico personale Polidori, legame che Arona descrive così: “tra i due le dinamiche di relazione rimbalzavano da un crescente e condiviso gioco di specchi, quasi uno “scambio di alterità” (vittima versus predatore e viceversa) con una conseguente identificazione reciproca al contrario (Byron si riteneva vittima di Polly – Polly Dolly era il soprannome dato al medico – che ne copiava l’abbigliamento e tentava, senza riuscirci, di replicarne atteggiamenti e stile artistico – Polidori che subiva la fascinazione del “Maestro”, nonché le sue bizze e i suoi scherzi spesso tremendi) e un’estrema tendenza al mimetismo, tale da sfiorare la schizofrenia comportamentale.

Byron versus Polidori, ma Byron amante di Claire e padre di Allegra che cresceva nel ventre della donna. Claire terzo incomodo di un ménage a trois tra Shelley e Mary”.

Questo inquieto e tenebroso gioco di relazioni fu messo alla prova dall’impresa letteraria di scrivere nuove ghoststory e da un pianeta che sembrava in piena Apocalisse meteorologica. Come riassume Arona, “Una natura imbizzarrita e un’atmosfera da fine del mondo, una congrega di artisti con rapporti interpersonali a dir poco complessi, i fantasmi di ognuno in piena deflagrazione, disturbi della personalità e sintomi post-traumatici. ‘Frankenstein’ e ‘Il vampiro’ furono così i coerenti prodotti di un incrocio straordinario di circostanze fuori dall’ordinario. Ognuno a suo modo, con le proprie peculiarità e le proprie ferite. Sempre sul confine tra la sfida cosmica e l’esperienza demoniaca. Il cielo lampeggiante dell’estate 1816 rappresentò al meglio quel coacervo di mondi croni e inconsci che, una volta fuoriusciti, non ne vollero più sapere di rientrare”.

Leggendo “La notte di Villa Diodati”, ripercorrendo la via storica e letteraria che ha portato alla nascita delle tre opere inserite, non è difficile intuire che la romantica convenzione della notte di Villa Diodati (un Mito peraltro non confermato neppure nei diari dei suoi protagonisti) affondi radici molto più profonde di quelle che avevano mai partorito storie di paura.

E non è un caso che i due miti orrorifici che più infesteranno l’immaginario occidentale – il mito della creatura forgiata dall’uomo e che torna a tormentarlo e quello del vampiro che deruba la vita dell’umanità – siano nati in una “notte” tanto conturbante e oscura della natura umana.

Simona Cremonini

(articolo originariamente apparso sul mensile L’Ermetico Errante, gennaio 2012)